San Benedetto Val di Sambro

Il Comune

Il comune di San Benedetto Val di Sambro appartiene al comprensorio di montagna della provincia di Bologna.
Il suo territorio (kmq 66,71) raffigura grossomodo un quadrilatero irregolare con orientamento nord/sud. Il lato meridionale corre lungo il crinale dell’Appennino Tosto Emiliano e funge da confine con la provincia di Firenze.
A ovest il torrente Setta lo divide dal comune di Castiglione dei Pepoli, a est il Savena da quello di Monghidoro. A settentrione, confina con i Comuni di Bologna (40 km) e i comuni di Monzuno e Grizzana.

Il territorio declina senza rimarchevoli pendenze dallo spartiacque appenninico alle colline e alla lontana pianura: il monte Bastione (m. 1190) la quota più alta, secondo e poco discosto il monte dei Cucchi (1140). Le valli del Savena e del Setta lo attraversano ai lati da sud a nord e si allargano via via fra crinali di sempre più comodo declivio: monte del Galletto (m. 956) da una parte, monte Armato (m. 789) e S. Rocco (m. 747) dall’altra. Nel mezzo le valli del Sambruzzo e del Sambro, che dà il nome al Comune. Altri corsi d’acqua di rilievo il Gambellato, grosso affluente del Setta, il Voglio, da cui Piano del Voglio, e il rio detto di Maggio, che si getta nel Sambro.

Acque, assieme a quelle di tanti fossi e rii e torrentelli che tagliano a perpendicolo campi e boschi per scendere verso le valli sottostanti, in alcuni tratti ancora limpide e intatte come un tempo. Anche un lago, e fra i più belli e ampi dell’Appennino Emiliano, si apre nell’alta valle del Savena per il piacere di pescatori e turisti: il notissimo lago di Castel dell’Alpi. Percorre il Comune una trama di importanti vie di comunicazione che uniscono Bologna e Firenze. Dalla ferrovia detta Direttissima, che presenta in questo tratto una delle più lunghe gallerie d’Europa, all’Autostrada del Sole, con i suoi incredibili ponti, viadotti, gallerie: vanto l’una e l’altra — pur in tempi diversi — del genio e del lavoro italiano. E poi strade minori, provinciali ma ottime per fondo, pendenza, disegno di curve, allacciano più volte la statale Porrettana alla statale della Futa, collegando i vari centri abitati fra loro e con i caselli autostradali di Rioveggio e Pian del Voglio e con la stazione ferroviaria. Campi coltivati, prati e boschi vestono le vallate e il dorso dei monti.

Il comune di San Benedetto è stato solo in parte colpito dall’abbandono dell’agricoltura post anni ’50: oggi piccoli proprietari e affittuari coltivano con amore i poderi loro e di altri, integrando il modesto reddito agricolo con il lavoro alle dipendenze di terzi, nell’edilizia, artigianale, pendolare a Bologna e Prato. Non terreni abbandonati alle sterpaglie quindi, ma coltivazioni curate, soprattutto di grano e fieno. La macchia, non più assediata dal bisogno di fuoco per l’inverno (metano, gasolio e gas in bombole hanno un po’ ovunque sostituito la legna per il riscaldamento) ha ripreso vigore e si espande nei terreni un tempo disboscati più per necessità che per convenienza.

Macchie di quercia dunque, mesofile e xerofile, proprie della vegetazione submontana emiliana e più in alto boschi di castagno, di faggio e vaste abetaie abbelliscono il paesaggio e offrono verde, fresca ombra, ossigeno (e legno). Leccio, acero, carpivo, frassino, oppio, sorbo, ontano, salice crescono spontaneamente entro e ai margini dei querceti, secondo la qualità del terreno, dell’umidità, dell’esposizione solare e possono facilmente riconoscersi fra cerri, roveri, roverelle. Al suolo, all’ombra degli alberi e nelle radure prative fra il bosco e oltre, vive e cresce una quantità di arbusti e umili erbe, che alla loro stagione si coprono di fiori bellissimi, come i diffusi viola, primula, ciclamino, ma anche i più rari (e protetti dalla legislazione regionale) giglio martagone, stilla, anemone, bucaneve, campanellino, giglio rosso di S. Giovanni, croco, per non citarne che alcuni fra i più delicati e preziosi.

Le notti d’estate può facilmente accaderci che i fanali dell’auto rivelino e abbaglino per un attimo la lepre che attraversa la strada. Di giorno si può incrociare il fagiano. È questa la selvaggina che gli stessi cacciatori diffondono nel territorio per la stagione della caccia. Ma altri animali selvatici, più difficili da scorgere, vivono ancora in montagna e se ne possono distinguere, per chi ha l’occhio esperto, le tracce e le tane: la volpe, il tasso, la talpa — ma il riccio e lo scoiattolo si lasciano vedere con facilità —, e recentemente il cinghiale. Fra gli uccelli il cuculo, il merlo, l’allodola, l’usignolo si odono cantare e fischiare già ai margini dei boschi. Di notte la civetta e il gufo, di giorno può vedersi roteare il falco. È un elenco, di piante e animali, quello fin qui fornito, di necessità appena abbozzato, ma atto a invogliare a meglio osservare e conoscere l’ambiente naturale per rispettarlo e goderne la bellezza.

Concludiamo la presentazione geografica del comune di San Benedetto Val di Sambro con un accenno alle attività economiche presenti nel territorio: edilizia, turismo, piccolo artigianato industriale e agricoltura danno lavoro, col terziario che le collega, alla maggior parte della popolazione, la quale è distribuita in dodici frazioni amministrative: Castel dell’Alpi, Cedrecchia, Madonna dei Fornelli, Monteacuto, Montefredente, Pian di Balestra, Piano del Voglio, Qualto, Ripoli, San Benedetto, Sant’Andrea, Zaccanesca.

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Un po’ di storia

San Benedetto Val di Sambro è un Comune relativamente nuovo, per costituzione e denominazione. L’attuale assetto amministrativo è posteriore all’unità d’Italia e fu il risultato dell’accorpamento di varie terre che ebbero nel passato diversa e indipendente giurisdizione. È noto, infatti, che nel tardo medioevo fino al primo ‘800 il territorio di ogni parrocchia e i suoi abitanti erano raccolti in Comu­ne, il così detto comune rurale, che si fermò spontaneamente con la disgregazione dell’organizzazione politica feudale proprio dalle parrocchie preesistenti.

Un foglio stampato nel 1757 che comprende tutte le comunità rette da massaro (sindaco) del contado bolognese elenca quelli attualmente compresi nel territorio di San Benedetto Val di Sambro: Sant’Andrea, Campiano (poi Monteacuto), Castel dell’Alpi, Cedrecchia, Montefredente, Poggio de’ Russi, Qualto, Ripoli e Zaccanesca. Come appare, San Benedetto non era organizzato in Comune, la parrocchia essendo anzi divisa fra i comuni di Qualto e Poggio dei Rossi o Russi. Una propria vicenda storica ha avuto invece Piano del Voglio, legata alle fortune della famiglia dei conti De’ Bianchi, reggitori di quella terra «con mero e misto imperio» fino alla conquista napoleonica d’Italia. Perduto il particolare reggimento amministrativo tardo feudale, Piano del Voglio formò assieme alle comunità rurali sopra elencate un unico Comune e ne accolse la sede municipale fino al 1871, quando il governo sabaudo-pie­montese nell’intento di razionalizzare le circoscrizioni amministrative la trasferì appunto a San Benedetto, borgo meno periferico di Piano rispetto alle rimanenti località del territorio comunale.

Piano del Voglio continuò a dare il nome al Comune, che divenne di San Benedetto Val di Sambro soltanto nel 1922, dopo ricorsi amministrativi e legali di non lieve peso per gli abitanti dei due borghi. Questo bipolarismo municipale ha certo favorito lo sviluppo equilibrato del territorio impedendone, come avvenuto per altri, la contrazione economica e demografica fino all’abbandono dei borghi minori, ingoiati altrove dalla preminenza politico-amministrativa del Capoluogo.

Non si conoscono vicende storiche che meritino particolare sottolineatura. La recente scoperta sul monte Bastione di tratti di un’antica strada che pare inoppugnabilmente romana e che correva dalla Futa (e Firenze) lungo il M. Galletto, M. Venere, NI. Rumici, Brento fino al Savena e Bologna, ha alzato il sipario del tempo proponendo un passato premedievale non conosciuto. A Castel dell’Alpi un toponimo affascinante, Campo di Roma, e rinvenimento di antiche monete e di cocci fanno presumere che la civiltà latina non transitasse soltanto lungo il crinale con i suoi legionari. Del resto a Grizzana e a Marzabotto, nella vicina valle del Reno da una parte, e a Monte Bibele nell’Idice dall’altra, i cospicui insediamenti degli Etruschi fanno pre­sumere almeno a una loro esplorazione lungo le solin­ghe valli interne dell’alto Savena, Sambro, Setta.

Durante il medioevo San Benedetto Val di Sambro non ha da offrire ai cronisti una propria storia diplomatica o militare. Le sue vicende sono quelle di tutta la montagna bolo­gnese: contessa Matilde, conti di Panico o di Mangona, Ubaldini, Comune di Bologna, Stato Pontificio sono le ul­time tappe di un percorso storico non originale. Si sa di luoghi fortificati e modesti castelli esistenti fin oltre il mille a Castel dell’Alpi, appunto, a Qualto, a Monteacuto (e c’è un luogo ancora denominato il Castello), al Castelluccio di Sant’Andrea, a Montefredente, ancora lungo la valle del Sambro. In definitiva le strade che conducevano in Tosca­na attraverso le valli dei torrenti, i crinali e i passi appen­ninici più agevoli erano sorvegliati da fortilizi che consentivano ai signorotti locali di pretendere pedaggi e comunque di controllare il modesto commercio e il tran­sito di uomini ed eventualmente di armati. Quando nel XIII secolo il comune di Bologna si volse a conquistare l’Appennino, rocche e castelli che non servissero alla difesa del Comune furono abbattuti perché non divenissero rifugio di rivoltosi.

Il resto è modesta cronaca locale. Di rilievo e paradigma­tica dello stato geologico del nostro Appennino la scom­parsa per frana dell’intera parrocchia di Campiano. Ne parlano i vecchi come di cosa recente e son passati due secoli. Racconta il Calindri che fu sul posto qualche anno dopo: «… al 5 di febbraio del 1762 la chiesa con la cano­nica, dieci case di possidenti, fra le quali una palazzina, furono intere ingoiate da una lavinosa voragine, la quale dopo di aver nascosto sotterra colle case e chiese il cam­panile ancora, Dio sa a quanta profondità, fece convertire il luogo di esse fabbriche in due profondi laghi ancora esi­stenti, e da noi veduti con piacere e con orrore…».

Vogliamo ancora malinconicamente accennare, anch’essa vicenda esemplare, alla perduta supremazia di Poggio Ros­so, un borghetto minuscolo nominato nelle carte e nei testi tardo medioevali a indicare i luoghi attorno a San Benedetto perché situato su un poggio coltivato e attraversato dalla comoda mulattiera che dal Sambro saliva sul crinale del monte Galletto a congiungersi appunto con la strada della Toscana ora scomparsa. Il nome gli veniva dal­la nobile famiglia Rossi che l’ebbe dal governo pontificio come sua terra. L’arma araldica dei Rossi, un leone ram­pante in oro, compare oggi nello stemma del comune di San Benedetto Val di Sambro assieme alla ruota che dovrebbe rimandare — se pure in modo erroneo — al precedente comune di Piano del Voglio e ai conti De’ Bianchi.

Stemmi a parte, il passato tardo medioevale ha lasciato i suoi segni ancora visibili nell’architettura civile. Modeste case in sasso mostrano architravi datati e ornati dai simboli cari ai maestri comacini e ai loro prosecutori nell’arte muraria.

Piano del Voglio possiede ovviamente i monumenti architettonici meglio conservati, antiche abitazioni comitali. Ma anche a Qualto, a Monteacuto (Palazzo di Suvizzano), al Castelluccio di Sant’Andrea, a Cà Musolesi di San Benedetto spessi muri anneriti dal tempo, portali, finestre, conci sagomati, strutture edilizie caratteristiche te­stimoniano dell’antica operosità montanara.

Può risultare utile alla conoscenza delle genti che hanno abitato fino all’ultima guerra mondiale le vallate dal Savena al Setta un cenno sui loro modi di vivere. Si può affermare che fino all’esodo degli anni ’50 si visse nei campi alla maniera che vi si era vissuto mezzo secolo e passa anni innanzi. La maggioranza dei contadini e pic­coli proprietari coltivatori diretti zappavano o vangavano la terra da luglio alla semina. Addirittura ancora nel ’50 si trebbiava a mano — «zercia», «preda» e imbovinatura dell’aia — in poderucci solinghi e lontani sui crinali dei monti, dove la trebbiatrice non riusciva ad arrivare nem­meno dopo Santa Maria, o il cui costo avrebbe ingoiato l’intero raccolto. L’isolamento per mancanza di agevoli vie di comunicazione è stato infatti fino a qualche decennio fa il vero problema della montagna. Da San Benedetto s’andava in città lungo il letto del torrente Sambro per rag­giungere a Rioveggio la strada del Setta.

Ancora fra le due guerre da San Benedetto e da Piano verso i borghi più in alto sull’Appennino s’andava per mulattiere, belle e ben tenute se si vuole, ma idonee soltanto a muli, appunto, o a birocci a due ruote. Tale situazione ha determinato il formarsi e il mantenersi di una cultura originale che si esprimeva a mezzo di un dialetto fonologicamente chiuso e nasale, ma che la fantasia dei parlanti fioriva di metafore oggi impensabili che rendono ancora affascinante il dire dei vecchi montanari, impastato d’an­tiche sentenze e di personali invenzioni linguistiche.

Le veglie alla stalla e nei Beccatoi erano i momenti comunitari privilegiati che consentivano l’elaborazione e la circolazione dei prodotti culturali della civiltà contadina. Al caldo degli animali si eseguivano lavori leggeri: spagliare, trecciare, filare, intrecciar vimini in canestri e gorghe erano attività che favorivano il canto di ballate e stornelli e la recitazione e l’ascolto di zirudelle, proverbi, favole, in­dovinelli.

La raccolta di questo materiale orale affidato fino ad ora soltanto alla memoria degli anziani rivela vere gemme di poesia popolare. Aiuta inoltre a comprendere in maniera meno semplicistica credenze e comportamenti sociali visti troppo spesso come curiosità folkloristiche e stranezze di gente rozza e selvatica piuttosto che co­me risposte adeguate ai problemi proposti da un duro ambiente di vita.

Al di là delle strumentalizzazioni turistiche è in atto un recupero delle sagre paesane. Le feste dei Santi patroni erano l’esplosione più clamorosa della volontà comunitaria compressa dai lunghi inverni e dalle fatiche del lavoro nei campi da buio a buio. Esprimevano una rilevante funzio­ne sociale offrendo allargate occasioni di comunicazione. Rappresentavano la prosecuzione cristiana dei riti sacri che hanno accompagnato nei millenni le vicende dell’uomo nel suo rapporto operoso con la natura. In tutti i borghi del comune di San Benedetto Val di Sambro sono tornate in onore con l’orgoglio paesano di riandare alle proprie origini, in­seguendo forse le lusinghe di un’improbabile ricerca del tempo perduto.

Una storia sociale di questo come dei vicini comuni della montagna bolognese non dovrebbe comunque dimentica­re le attività economiche proprie dei luoghi, che furono treccia di paglia e raccolta ed essicazione delle castagne, come andrebbero recuperati al patrimonio culturale regio­nale i balli montanari, «bal speck» o «bal stac», eseguiti su musiche addirittura rinascimentali.

da un testo di Adriano Simoncini

Del comune di San Benedetto Val di Sambro fanno parte anche le frazioni di Borgo (3,46 km), Ca de Borelli (7,43 km), Campiano (1,94 km), Campovecchio (5,08 km), Castel dell`Alpi (5,63 km), Ca` dei Santoni (5,84 km), Ca` Farini (3,95 km), Ca` Fontana (4,92 km), Ca` Nova (4,48 km), Ca` Santoni (5,84 km), Ca`Giardini (1,54 km), Cedrecchia (3,22 km), Faldo (4,03 km), Forno (5,62 km), Ginestrella (6,79 km), La Ca` (6,79 km), La Villa (4,05 km), Madonna dei Fornelli (3,23 km), Malburo (6,07 km), Monteacuto Vallese (3,93 km), Montefredente (3,25 km), Olmeta (7,58 km), Pian dei Torli (5,33 km), Pian del Voglio (5,54 km), Pian di Balestra (6,54 km), Pian di Boso (6,41 km), Piano del Voglio (5,44 km), Picervara (6,88 km), Ponte Locatello (5,91 km), Qualto (1,81 km), Ripoli (4,30 km), Rovinacci (6,19 km), San Martino (0,84 km), Santa Maria Maddalena (4,11 km), Sant`Andrea (1,54 km), Selva (3,84 km), Stazione (4,75 km), Valdirosa (7,48 km), Zaccanesca (4,41 km).

Il numero in parentesi che segue ciascuna frazione indica la distanza in chilometri tra la stessa frazione e il comune di San Benedetto Val di Sambro.

Adriano Simoncini, nato a San Benedetto Val di Sambro ma residente a Pianoro, è stato insegnante e direttore didattico. Appassionato di letteratura e di storia locale dagli anni Ottanta del secolo scorso si occupa di cultura contadina e di usi, dialetto e tradizioni montanare. Tra le sue opere oltre alle citate “Il crepuscolo della civiltà contadina” (Grafis, 1983), “Il tempo delle favole” (Edagricole, 1992), entrambi con foto di attività rurali di Mauro Bacci, la raccolta di racconti “Vacanza erotica con rapina” Faentina, 2006), “Fòia tonda” (Savena Setta Sambro, 2006) su detti e fatti della montagna bolognese, le memorie biografiche “La compagna di banco” (Savena Setta Sambro, 2015), e il saggio sulle magie e credenze popolari “Il malocchio come si leva(va)” (Savena Setta Sambro, 2019), senza contare i tanti libretti pubblicati a sostegno della tradizionale festa annuale di Sant’Antonio da Padova a San Benedetto Val di Sambro.

Adriano è stato fino a qualche mese fa anche condirettore della rivista semestrale “Savena Setta Sambro”, di cui fu uno dei fondatori, e collabora tuttora con la rivista trimestrale “Nelle Valli Bolognesi” con una sua rubrica.

(da savenaidice.wordpress.com)

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